Cardiomegalia – Episodio II

di Loris Pina (@grissinotunatuna); foto: @rossofloyd.

Questo brano fa parte della rubrica “Conversazioni Musicali”, direttamente dal nostro Cantiere delle Idee…:

Camminiamo lungo viale Valsecchi (il Footlocker sorveglia il Mc e i suoi clienti che entrano a provare tastare pulirsi palmi dita tutte unte sulle scarpe) con le maniche intrecciate fra noi in una doppia elica di legami covalenti. Le mani sono al riparo dentro le tasche: di sera la temperatura scende repentina e non abbiamo i guanti.

All’esterno dei portici il termometro lasciato di guardia segna dieci gradi.

“Una volta mi avrebbe dato molto più fastidio il freddo.”

“Hai imparato a coprirti.” Gli sferro una gomitata contro il fianco ma il giubbotto di pelle – imbottito da canottiera maglietta maglione bianco di lana – respinge il colpo. “E vedrai che non prenderai più raffreddore se rinunci a fare il figo.”

“Io voglio il caldo e il sole, non questi pallidi opposti.”

“Abituati: è la chiave della sopravvivenza.”

“E la fuga?”

“Rimane un’opzione.”

Soli tra la gente noi non sentiamo chiacchiere risa battute discorsi auguri pronunciati a denti stretti tra le mascherine chirurgiche. Noi non sentiamo niente.

Carlo mi obbliga a seguirlo mentre curva a sinistra, oltrepassando le colonne che delimitano l’accesso ai portici: sta accelerando e fatico a stargli dietro.

“Non stiamo andando al lago?”

Lui annuisce e continuando a camminare si volta per rassicurarmi ma lo sguardo è distratto, distante nella messa a fuoco. Si sistema la mascherina strattonandola da uno degli elastici. “Oggi preferirei cambiare itinerario: qualcosa di più privato; personale, anzi.”

“Carlo, a volte mi ricordi un gatto.”

“Tenero? Peloso?” Sposta il braccio libero e mi palpa il seno. “Perché ti impasto le tette?”

“Osservi qualcosa di indefinito negli angoli.”

Carlo distoglie gli occhi chinandoli a terra e rallentiamo l’andatura fino ad arrestarci all’altezza delle strisce pedonali; si morde il labbro inferiore, inspirando profondamente prima di parlare.

“Ultimamente noto cuori di cemento senza sangue nelle vene.”

“Quanto grossi?”

Allarga il braccio sinistro. “Enormi.”

Lo blocco afferrandogli il polso: gli trema la mano, ingiallita, investita dall’aureola dei lampioni. Mi avvicino, abbasso la mascherina e gli alito addosso un bacio umido di calore che si scontra contro il suo palmo.

“Portati i guanti la prossima volta.”

“Portiamoci i guanti, semmai.” Credo di sentire soffocare un risolino di imbarazzo intanto che controlla la piazza lungolago vie tavolini all’aperto bar. “Sai che sono smemorato.”

“Rischi di rovinare le tue belle mani.” Mi attiro Carlo addosso, costringendolo a farmi entrare nel suo campo visivo. “Sarebbe un peccato.”

“E tu come faresti poi senza?”

“Porco.”

Touché. Ma comunque anche le tue mani sono gelate.”

“Meglio di niente, non credi?”

“Se riescono a portarmi via da me stesso anche solo per un secondo valgono una vita intera.”

Gli schiocco un bacio sulle nocche.

“Lascia stare le frasi a effetto.”

Tagliando per Piazza Casto abbiamo raggiunto al Parco dei Gemelli in dieci minuti: le foglie scricchiolano secche sotto le suole, staccate dalle fronde a vantaggio delle nuove generazioni. Per loro non ci sarà più nessun cielo.

Il cancelletto che accede alla diga foranea è spalancato.

“Dove lo vedi quel cuore enorme?”

Carlo punta dritto davanti a noi, verso il termine della diga . “Là.”

“E allora andiamo a ribaltarlo in acqua.”

Oltrepassiamo l’entrata e veniamo accolti dai cartelli pubblicitari affissi al parapetto che annunciano il concerto di Romina Falconi al Teatro Sociale il sedici ottobre: avvolta dentro un tubino nero brandisce una mannaia insanguinata, strofinandola contro la chioma ritorta in una piega ossigenata alla Marilyn.

“Poi mi spiegherai com’è fatto questo cuore.”

Il mio sistema è in crash” scrolli le spalle risistemandoti la cerniera scesa fino alla bocca dello stomaco, difettosa “e da lontano non si vede niente.”

Dalla cima delle montagna di fronte il faro troneggia sul lago accendendosi di verde per indirizzare il buio e non farlo sbattere contro il crinale; la volta notturna si agiterebbe cieca (pericolosa per sé e gli altri) lasciata ai suoi sensi: è solamente una neonata.

“Potremmo salire sopra il faro.”

Carlo si schiarisce la gola con un colpo di tosse. “Dove, scusa?”

“Ha due balconi circolari panoramici.”

“Ma stanotte danno nuvoloso.”

“Appena ci sbarazzeremo del tuo cuore dovrai trapiantartene subito uno nuovo” sfilo la mascherina che gli elastici mi stanno segando le orecchie “e dovrà essere il più puro possibile.”

“Costituito da vapore acqueo.”

“Lieve.”

Carlo scuote il capo, asserendo. “Potrebbe farmi comodo vivere meno teso.”

“Fai in modo di considerarlo un regalo di compleanno anticipato.”

“Ma che spilorcia.”

Nel mentre due ambulanze sfrecciano a tutta birra sul lungolago, penetrando in Piazza Casto dirette verso l’interno della Città Murata; le coppie famiglie gruppetti di ragazz* se ne stanno rintanati dall’altro lato della strada pronti a tornare a casa che sta per scoccare il coprifuoco.

Gli scivoli e le panchine della striscia d’erba sintetica ne approfittano per godersi la quiete.

“Come abbiamo trascorso queste cinque ore? Erano le quattro e mezza quando sono arrivato.”

“Non devi fidarti degli orologi, scandiscono i minuti a piacimento.”

A metà passeggiata accenna a delinearsi il contorno di una struttura – una scultura, alta almeno venti metri. Ha la tipica forma del cuore romantico spropositato nella dimensione degli atri.

“Piuttosto: e quello?”

“Quello è il mio cuore; o meglio: quello che vedo oggi.”

“Hai il cuore di un bimbo delle elementari. Mai aperto un libro di scienze?”

“Lo sai che sono impedito nel disegno.” Si leva anche lui la mascherina, prendendo un fazzoletto di carta dalla tasca dei jeans che gli sta colando il naso. “E il cemento non è così facile da modellare senza strumenti o stampi idonei.”

Disseminate secondo una schema circolare alla base dell’opera fasci di luce obliqua rossi oro e neri ne investono i bordi ruvidi, frastagliati, segno di un tratto incerto.

“Fuori sorrido ma dentro vorrei scuoiare tutt*.”

“Devi saper perdonare – e perdonarti – per andare avanti.”

“Perdonare un paio di palle, dopo tutti i calci in culo che ho subito.”

“E allora fai come vuoi.” Le sedute d’acciaio, prive di schienale, si tengono a debita distanza – restano lungo la circonferenza della piazzola che non amano il contatto. “Ma questo coso lo tiriamo giù.”

Mi rimbocco le maniche viola del giubbetto scoprendo gli avambracci che, spavaldi, salgono il gradino di pietra alla base e sfidano il cuore di cemento di Carlo.

Lui è rimasto indietro: getta il fazzoletto usato in un cestino e rindossa la mascherina.

“Che pensi di fare?”

La cuspide inferiore del cuore non è ancorata al suolo: sospesa a qualche centimetro dal supporto incanala gocce rosse dorate e nere per farle colare perpendicolari al foro di scolo.

Evito la pozza sporca di colore e mi appoggio con la spalla contro la statua. Dondola.

Ringrazia che sono una signora.”

Tenendo l’accortezza di posizionarmi lateralmente per evitare di macchiarmi spingo il cuore il Cuore il CUore il CUOre il CUORe il CUORE…

Mi ci sono volute sei spinte per fargli perdere l’equilibrio e buttarlo in acqua; più a causa dell’altezza che non per il peso: era davvero leggero. Lo strato di cemento non andava oltre l’intonaco seccato dalle luci. Pesava come un macigno nel petto di Carlo perché rosso oro nero non sono i suoi colori. Ognun* è tarato sulla propria lunghezza d’onda: le altre rischiano di metterlo in stallo.”

…che si sbilancia e crolla contro il parapetto, frantumandosi in una miriade di calcinacci e liberando un pulviscolo di particelle rosse oro nere.

Io mi risistemo le maniche mentre i faretti si spengono, non dovendo più incarcerare nessuno: Carlo è svanito.

Lo avevo aiutato ad evadere ma adesso era un fuggitivo con un unico proposito: regolare i conti con se stesso prima di farsi rivedere.”

Loris Pina (@grissinotunatuna)

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