di Giorgia Deidda; artwork: Lorenzo Mattotti
I
Eravamo sul pontile,
tra il viottolo ed il lungosenna.
La scarpata era ripida.
C’era una vecchia casa in rovina,
che dava direttamente sull’acqua.
Esalava un sentore di alito soffocante
e tra nave e nave
si moveva appena
qualche tremulo riflesso.
E da lì si sentiva una musica
che pareva la voce mia
quando ti sussurravo all’orecchio.
Il tramonto era finito;
porsi l’orecchio al mite lamento del merlo –
dovevamo andare.
II
Libagione di corpi,
la mano tende verso il cielo.
Non è di ruggine che mi interessa parlare,
ma di terreno, bagnato
d’acqua sporca e nera
di edere che s’inerpicano nel mio ventre,
scudo di parole infette
e i miei occhi che parlano, acquosi,
con una nebbiolina che sfoca il tuo viso,
perdutamente ed amaramente mio.
III
Sono gli occhi,
quelli da cui traspare l’infinito, la vastità degli astri,
l’impalpabile, ignoto etere.
Da ogni cosa nasce un’apertura,
– un paralume verde di vetro mi osserva quando dormo -.
La tenera, sentita premura che traspare dai tuoi occhi è come balsamo.
Guarderò l’infinito dentro di te.
IV
Il singulto, il mugolio
della tenebra convulsa,
due fili finissimi di sangue
dagli angoli della bocca,
uno spasmo bluastro
che le tolse il respiro.
Così cedette alle brutture inconcepibili,
fittizie,
brutture contemplative;
questa notizia
mi tolse letteralmente il respiro
per un attimo:
Io,
non ero più.
So poco della notte:
una marcescenza che tremula
mi rende tutti i pensieri della giornata,
un’estate spenta,
un’oscurità che nebulosa
mi solletica i nervi;
solo nel nero il malvagio è contento
e spira schietto e non affrettato,
ché la notte è lenta e aspetta,
è una muffa
è una pleiade di fiori,
un formicaio di stelle.
Ma io non
l’ho mai
capita.
Nel ventre la serpe
ricresce ricurva;
un osso sanguinante,
mentre il cielo gronda
profumo, quanto ne esalerebbero i morti.
Non avevo mai pensato
alla sua bocca tirata in dentro
come l’apertura
di una gronda.
I morti, gli insepolti, gli uccisi,
i caduti, i dannati
giacciono come cadaveri
illuminati dal grande faro;
andarono via tutti e due
più vivi che morti
– il sorriso sulle labbra a dire –
io,
esisto ancora.
Dannate le ombre, le nebbie cupe, i bagliori densi e carichi, pesanti come rocce,
dannati gli sprazzi, i vapori,
tutto ciò che non mi fa vedere il tuo viso.
Triste Plutone,
signore delle fiamme sulfuree
che eruttano i ribollenti monti etnei,
governatore delle pene
e dei torturatori delle anime dannate,
che te ne fai lì da solo,
nell’eternità?
Aiuta due poveri amanti a ricongiungersi, carduchi,
senza privarli della loro felicità in vita.
La schiavistica illusione
è quella che permane,
per la mia
sopravvivenza.
Giorgia Deidda (@gio__de)