Cardiomegalia – Episodio I

di Anna Toscano e Loris Pina;

Carlo:

La città è diventata un mostro di ansie, paure, grigiore. Ci sono solo sagome indefinite che cercano disperatamente un compagno di viaggio; e io penso che la paura della solitudine potrebbe uccidere l’uomo, costringerlo a una sterile socialità. Sto percorrendo una strada troppo grande e mi accorgo che la via è dispersiva; io cammino più veloce degli altri, forse per non perdermi come loro.

– Tutti mi sembrano persi, sì. –

Respiro tanti fumi diversi, sento fantasmi alleggiare, vecchie storie. Storia emozionante, quella di ieri: forse è sempre stato così…il presente non piace mai a nessuno. Ora mi fermo su un ponte: o cado indietro o cado in avanti; ma no, non voglio rimanere fermo e non voglio rimanere solo.

– No, solo no…perché dovrei? Non voglio rimanere solo. –

Sto venendo verso di te, uno slancio del busto mi fa tornare indietro. Non voglio cadere in avanti, oggi. Tu mi stai aspettando al bar dei viaggiatori, il bar della stazione centrale. Sorrido pensandoti seduta, avvolta nella tua grande sciarpa colorata. Una vecchia conversazione mi torna alla mente: eravamo seduti alla fine di un bus mezzo vuoto, senza anima e tu mi hai detto, sussurrando:

“Siamo pieni di meccanismi infernali e diversità ghettizzate, costrette a scontrarsi. Cosa siamo diventati?”

Mi guardavi allarmata, sussurrando sempre più piano…ma non c’era nessuno lì su. C’eravamo solo noi, nella parte dimenticata della città.

“Ti prego parla più forte, non riesco a sentirti” Ti dico.

Hai schiarito la gola, guardando fuori dal finestrino: “ricordi almeno un posto che ispiri sonni tranquilli? È mai esistita la normalità? No, non la conosciamo più.”

Una piccola pausa, i nostri fiati sospesi.

“Ma dov’è finito il sole?” Hai detto.

Siamo rimasti fermi, anche se saremmo dovuti scendere; ma noi eravamo inchiodati ai sedili di plastica, inchiostro di vecchie bugie, di viaggi passati in periferia, vite spezzate -chissà quante.-

Ora torno a camminare veloce, mi dirigo da te. Ti immagino guardarti intorno al nostro tavolino preferito al bar dei viaggiatori. Stringerti nella sciarpa, per anticipare il vento freddo che sta arrivando dai meandri della sera. Per strada sembra un deserto, ma in lontananza lo vedo: un tramonto infelice, sta cadendo su di me come un manto rosso; da dietro le nuvole sagome stanche si trascinano dopo una giornata intera a pensare chi sono…a cercarsi o cercare forse la propria metà, non sapendo che è tutta una storia inventata: la vita alla fine non è mai stata scritta, siamo schegge veloci che si muovono a caso.

– Perché le persone credono nel destino? –

– Perché hanno bisogno di avere un piano o che qualcuno abbia un piano per loro. –

Sono arrivato da te, mi siedo vicino, ma rimango in silenzio. Accanto a noi, persone che son virgole su schermi luminosi viaggiano su metropolitane veloci, ma lenti; credono di sapere la verità…ma io lo so che qui, in questo posto chiamato realtà, ci siamo persi un po’ tutti.

-Perché non c’è nessuno di autentico, nessuno che sappia parlare di sé senza perdersi in mille aggettivi, dubbi, domande risposte senza verità…-

Riesco a vederli: sono come lapilli che escono fuori da un camino e danzano accanto a noi: bizzarri frammenti di anima squarciano il cielo ormai blu scuro, puntellato di minuscoli brandelli della vita di un tempo…delle vite che noi non crediamo di vivere.

Mi faccio coraggio, guardo il tuo viso un po’ arrossato dal freddo, ti dico: “Allora? Come è andata al colloquio oggi?”

Sorridi tenendo stretto il tuo tè alla menta. Ti guardo titubante e non so cosa fare, forse vorrei fuggire via da tutto questo.

Paola:

“Non mi hanno assunta.”

“E perché?”

Sorseggio il tè e gambe accavallate parallele al tavolo. “Perché le ragazze fidanzate sono acide, non sanno divertirsi.”

“Gli do ampiamente ragione.” Tu scosti una sedia e ci appendi la tracolla, sfregandoti le mani prima di sederti. “La monotonia uccide rapporto, sesso e sentimenti.”

“Ma tu non dovresti essere dalla mia parte?”

“Fidati: preferisco deprimermi e farti andare avanti a studiare.”

Mi accalco con la spalla e il maglione di lana vicino al calorifero. I camerieri si stanno affrettando a sanificare i tavolini con soluzione a base alcolica, spruzzino e spugne in dotazione atte a contenere i rischi delle sedici e trenta.

“Ci saremmo potuti vedere più tardi: fra un po’ il Caffè inizierà a riempirsi per l’ora delle merenda.”

“E a te serve una cioccolata bianca per riprenderti.”

“Bianca?”

“Poi usciamo a fumare che ho voglia di piangere.”

Sblocco la schermata del cellulare per controllare le offerte di lavoro via mail: increspata dal tintinnio della tazza contro il piattino termino la conversazione.

All’esterno stavo congelando così sono entrata; o forse sono io il problema: ho le mani perennemente gelate. Fremono alla disperata ricerca di calore – di sangue, della grande circolazione battiti pressione a norma ma sono impazziti e quando parte è un flusso che contrae i muscoli, pompa i pugni, serra i denti, risuona nei timpani un sibilo che li stappa.

Ti sputi sulle dita e mi spegni la sigaretta, dopo aver gettato la tua.

“Sono io quello che si merita le ansie.”

“Per forza, hai smesso di fumare.”

“E finché non sarai anche tu in astinenza lascia a me i deliri esistenziali.”

“Se hai i deliri possiedi tutto.”

In piazza Bigiolli la sera sta scendendo: clicca sulla teste dei pali della luce, tonde, spendendo due parole di conforto per riscaldarle. Le ombre si restringono, rintanate alla base – sotto i talloni dove sostengono la colonna vertebrale.

I lampioni sostituiscono il sole.

“Carlo, che ore sono?”

“Le 21.30.”

“Grazie.”

Stacco la cartina della sigaretta dalle labbra e metto davanti le braccia per palpare lo spazio circostante, che lo spazio tradisce i palazzi: Bijoux Brigitte pare a un palmo di naso dall’altra parte della via (al numero 50) e Caffè Maya, addossato, lascia intravedere il fianco tra i due negozi. Il buio lì dentro ha un vertice di trenta gradi che si estende oltre la sfumatura fisica; mi punge i palmi.

“Fra poco dobbiamo rientrare. Mi riaccompagneresti?”

“Sono qui per questo.”

È arduo passeggiare a vista tra i banchi di luce calda,arancione, nei quali aleggiano i contorni spigolosi della Città Murata.

Chiudo la cerniera del giubbetto (nella tasca ho il portafoglio gonfio di resto che blatera in tre o quattro lingue) stringendogli la mano.

“Ma lo sai che hai proprio delle belle mani?”

Carlo accenna un mezzo sorriso. “E per forza: le lisci col tuo tocco.”

“Leccaculo.”

“Preferirei adulatore.”

Intrecciamo le dita tirando su i cappucci, celando testa capelli baci dalle telecamere di sorveglianza in un cerchio magico di labbra rosse – le mie, che non hanno bisogno di un rossetto.

Anna Toscano (@rossofloyd)

Loris Pina (@grissinotunatuna)

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