di Benedetta Zema @benny_zema;
artwork: andreacalisi;
Gigi, detto Gigino per via dei suoi quarantasette chili per un metro e cinquantanove di altezza, aveva perso il lavoro. Era il ladro più abile che ci fosse in circolazione. Il talento lo doveva alle sue manine, avvezze a far saltare anche le serrature più complicate, e alla sua corporatura minuta, grazie alla quale riusciva a infilarsi nei pertugi più disparati e a issarsi fino ai piani più alti. La sua specialità era camminare in bilico sulle tettoie e arrampicarsi lungo le tubature. A volte, quando le ombre della città si stagliavano contro il buio della notte e il paesaggio scorreva silenzioso ai suoi piedi, gli piaceva immaginare di essere un talentuoso equilibrista che si esibiva davanti ad una vasta folla di spettatori. Nella realtà gli unici che si accorgevano del suo passaggio erano grossi gatti dal pelo arruffato e dalle molteplici cicatrici che lo fissavano con l’indifferenza tipica della loro specie.
Aveva iniziato a lavorare da ragazzo, borseggiando ignari croceristi al porto turistico della sua città. Era un bambino ambizioso e sognava già di poter svaligiare grandi e lussuose ville, ma gli era stato spiegato che, come qualsiasi altro mestiere, anche quello del topo d’appartamento richiedeva una gavetta. Tuttavia, il ragazzo aveva stoffa e i più anziani dell’ambiente non tardarono ad accorgersene. Così, in tempi record, Gigino aveva concluso la sua “istruzione” ed era stato promosso all’incarico successivo. Se ci fosse stato un premio per l’abilità nel rubare, se lo sarebbe sicuramente accaparrato tra grandi applausi e calorose strette di mano.
Per anni aveva perfezionato la sua arte in appartamenti di tutti i tipi: monolocali, villette a schiera, case di città e di campagna, non c’era luogo dal quale Gigino non si allontanasse con un ricco bottino in mano e un sorriso trionfante in volto. Stava progettando il colpo del secolo, quello che lo avrebbe reso leggenda, quando la sua attività - non solo la sua, a dire il vero - aveva subito un brusco arresto. Un virus molto aggressivo si stava diffondendo rapidamente tra la popolazione e i governanti per contrastarlo stavano adottando misure via via più stringenti. Ma l’ultimo, drastico provvedimento, quasi provocò un colpo al povero Gigino.
Stava sorseggiando un tè verde - nel suo regime alimentare non erano ammessi alcolici, né tabacco, né carne rossa perché la forma fisica era tutto per la sua carriera - e studiando la pianta della maxi-villa da svaligiare, quando in tv comparve un tizio dai capelli fluenti con una bandiera dell’Italia posizionata alle spalle. Gigino notò subito che portava al polso un gran bell’orologio, ne fece una rapida stima per deformazione professionale e si dispose all’ascolto.
“Cari connazionali, la diffusione del virus ha ormai raggiunto livelli allarmanti e le strutture sanitarie sono al collasso. Dopo aver consultato il comitato tecnico-scientifico, mi trovo a dover agire in fretta per respingere l’attacco di questo nemico invisibile. Pertanto, dispongo immediatamente la chiusura totale del Paese. Non si potrà uscire di casa se non per comprovate esigenze lavorative e chiunque lo faccia senza un valido motivo verrà pesantemente sanzionato. Per mettere fine a questa emergenza serve la collaborazione di tutti noi…”
Seguì un discorso con cui il Presidente del Consiglio cercava di confortare i milioni di italiani in ascolto, garantendo sussidi e agevolazioni economiche, ma Gigino non stava più prestando attenzione: con una mano si stringeva il lato sinistro del petto, con l’altra si reggeva al tavolo perché la stanza aveva preso a vorticare attorno a lui.
Era una tragedia. Se le persone non potevano più muoversi dalle loro abitazioni, come poteva introdurvisi per portar via le cose di valore? Cosa ne sarebbe stato del suo lavoro? Di cosa avrebbe vissuto da quel momento in poi? Si prese la testa tra le mani sforzandosi di riflettere. Avrebbe potuto prendere di mira le case vacanze, ma lì la gente non lasciava mai nulla che valesse la pena di rubare. Sarebbe stata solo una perdita di tempo. Inoltre, lui stesso non poteva spostarsi senza una valida motivazione e il furto in appartamenti non era esattamente una professione che potesse essere registrata all’Inps.
Le settimane passavano e la situazione non accennava a migliorare. Gigino tirò avanti come poté con la somma ricavata dall’ultima refurtiva poi, con l’umore a terra e la disperazione nel cuore, dovette rassegnarsi a cercare un lavoro legale che gli desse da vivere. Appese il grimaldello al chiodo e si recò da Gesso.
Mi si permetta di aprire una piccola parentesi per tratteggiare questo singolare personaggio. Doveva il suo soprannome ad un incidente che aveva avuto anni prima. Nessuno conobbe mai le circostanze in cui si era verificato, tutto ciò che si seppe era che Gesso era vivo per miracolo e che il suo corpo era ingessato dalla testa ai piedi. Dal momento che gestiva un panificio nel centro cittadino, si era procurato una sedia girevole e aveva assunto un aiutante al quale spettava il compito di ruotarlo nella posizione corretta ogniqualvolta qualcuno gli avesse rivolto la parola. Sebbene fossero passati anni e anni da quando in ospedale gli avevano levato il gesso, il suo corpo aveva preso ad assumere naturalmente una posizione rigida e impettita, come se il gesso ne avesse plasmato la forma, con la conseguenza che pareva un militare costantemente sull’attenti. Sfortunatamente per Gesso, ogni comunità è dotata di ottima memoria e di un’ironia feroce di cui non mancò di diventare vittima.
“Hai visto Gesso?”
“Lo trovi giù al bar.”
Il soprannome, dapprima pronunciato tra risatine e strizzate d’occhio, gli era poi rimasto appiccicato addosso, come un vestito scomodo del quale non ci si riesce a disfare, al punto che i più giovani non seppero mai qual era il suo vero nome.
Gesso, dunque, era proprietario di uno storico panificio. Fu il primo al quale Gigino si rivolse alla disperata ricerca di un impiego.
“Ho già il ragazzo che mi aiuta in negozio. Non posso permettermi di pagare due lavoranti” gli rispose con aria contrita.
“Ges…Marco” si corresse prontamente Gigino.
“E’ una vita che mi chiamano così” disse con un gesto noncurante della mano.
“Ho davvero bisogno di questo lavoro. Mi basta anche un compenso misero, non ho più da mangiare.”
Gesso, dalla postura rigida ma dal cuore tenero, non ebbe la forza di buttarlo in mezzo alla strada.
“D’accordo amico, ti aspetto alle quattro di domattina.” Con ogni probabilità si aspettava una reazione di protesta che, tuttavia, non arrivò. L’uomo non poteva saperlo, ma Gigino era perfettamente abituato alla mancanza di sonno perché era proprio quando la gente si assopiva che lui entrava in azione.
Gigino imparava in fretta e aveva una manualità non indifferente. Questo fece di lui un ottimo panettiere in brevissimo tempo. Ancora una volta stava bruciando le tappe e si stava rivelando un apprendista estremamente capace. Inoltre, fare il pane gli piaceva. Affondare le mani nella pasta, conferirle una forma e vederla uscire trasformata e fumante dal forno, lo inebriava. Il pane richiedeva pazienza, tempi precisi di lievitazione e un processo di lavorazione in più fasi, nessuna delle quali poteva essere trascurata. Era un rito che conservava, agli occhi di Gigino, una sacralità ormai perduta, che imponeva lentezza in un mondo in perenne corsa.
Non riusciva a spiegarsi da dove traesse origine quel piacere sconosciuto, quel fermento che gli ribolliva in petto mentre, avvolto nel suo grembiule da lavoro, si detergeva la fronte dalle goccioline di sudore e attendeva di sfornare le sue creazioni di acqua e farina.
Poi finalmente capì. Realizzò che anche il suo precedente lavoro aveva in qualche modo a che fare con l’attesa: gli appostamenti infiniti per conoscere orari e abitudini dei proprietari di casa, i giorni e, talvolta, le settimane di scrupolosa pianificazione. Rubare gli mancava, non poteva negarlo.
Passarono i mesi e la vita tornò alla normalità. Il virus era stato debellato grazie alla scoperta di un potente vaccino e non era più l’argomento all’ordine del giorno. Sembrava essersi trattato di una parentesi irreale, come quando ci si sveglia da un brutto incubo inquieti ma sollevati. A questo punto Gigino lavorava da mesi al panificio e si era ormai abituato alla sua nuova routine.
Ora che le circostanze erano nuovamente mutate, però, davanti a lui si presentava un dilemma, un bivio che lo costringeva a interrogarsi sulla direzione da prendere: da un lato una vita tranquilla, onesta, fatta di piccoli piaceri e priva di grandi emozioni; dall’altro la sua vecchia esistenza, esaltante ma altrettanto pericolosa.
Durante una pausa dal lavoro, gli capitò di confrontarsi con il suo collega, un ragazzo ossuto dagli occhi vispi che rispondeva al nome di Zeno. Ovviamente il discorso era molto generico e Gigino si guardava bene dal rivelare informazioni compromettenti sul suo passato. Stavano fumando una sigaretta - ormai Gigino se ne concedeva una di tanto in tanto insieme ad un bicchiere di vino, motivo per cui anche il suo ventre non era più piatto come un tempo.
“Io penso che la vita è breve” disse Zeno e Gigino si accorse che stava tentando a fatica di esprimersi in italiano piuttosto che in dialetto. “Se fai qualcosa che ti piace e che ti dà un motivo per alzarti, anche qualcosa di semplice come fare il pane, devi accontentarti. Lavori sodo ma hai la coscienza pulita. Sei un uomo libero, insomma.” Zeno tacque imbarazzato, come se avesse già detto troppo. Come se in qualche modo si fosse esposto più del dovuto.
Gigino, dal canto suo, si chiese se quel riferimento alla coscienza fosse casuale o se quel ragazzotto taciturno avesse intravisto qualcosa sotto la maschera del lavoratore indefesso che sfoggiava ogni giorno ormai da mesi. Non ebbe mai modo di scoprirlo.
Gigino era sempre più inquieto. Non chiudeva occhio, trascorreva ore e ore a rimuginare. Era divorato dall’indecisione. Dentro di lui si era aperta una crepa.
Dopo l’ennesima crisi, si presentò da Gesso e diede le dimissioni.
“Ti devo tanto, Marco. Mi hai accolto come un figlio in un momento di necessità e di questo ti sarò sempre grato. Ora sento la necessità di dedicarmi ad altro.”
Gesso, da gigante buono quale era, annuì e sorrise mestamente.
“Sapevo che questo momento sarebbe arrivato, sai? Lo sentivo. Peccato, hai delle mani d’oro, sembravi nato per fare il pane. Fa’ buone cose.”
Si congedarono con un goffo abbraccio, poi Gigino si avviò lungo la via. Sapeva che Gesso lo stava guardando dalla soglia del panificio, ma non si voltò.
Riprese a pianificare il Colpo, notte e giorno, senza sosta. Tuttavia, scoprì di doverne anticipare l’attuazione, perché i proprietari della villa sarebbero partiti di lì a breve, portando con sé la preziosa collezione di gioielli che il ladro aveva preso di mira. Questo senza dubbio gli causò uno svantaggio e lo privò del prezioso tempo necessario a pianificare il tutto nei minimi dettagli. La fretta, si sa, è una cattiva consigliera. Ma era tardi per fare marcia indietro. Ora o mai più, si disse per mettere a tacere i dubbi che gli affollavano la mente. Erano le venti in punto e secondo le sue informazioni i due ricchi coniugi avrebbero dovuto partecipare ad un’esclusiva cena di gala.
La villa, circondata da un vasto giardino, era protetta da un avanguardistico sistema d’allarme che Gigino non ebbe troppe difficoltà ad eludere e i due dobermann francesi che presidiavano l’ingresso furono ammansiti con delle polpette contenenti del narcotico. Il ladro sorrise pensando che un sistema di quel tipo avrebbe potuto mettere in difficoltà gente inesperta, ma non un navigato professionista come lui. Percorrendo il vialetto sul retro notò delle figure immobili, i cui contorni si stagliavano nell’oscurità. Si avvicinò con i sensi all’erta ma si tranquillizzò realizzando che si trattava di semplici statue a mezzo busto, raffiguranti divinità greche. Ne toccò una, spinto da un insolito impulso, e sentì sotto le dita la consistenza solida e liscia del gesso. Fu pervaso da un’improvvisa inquietudine ma la scacciò come meglio poteva e proseguì verso l’abitazione.
Nel buio più totale, si introdusse al pianterreno e, una volta disattivato il sistema di videosorveglianza, si concesse di alzarsi il passamontagna per asciugarsi il viso sudato. Individuò la cassaforte, collocata in un sontuoso studio, e iniziò ad armeggiare con gli appositi strumenti per aprirla.
Fu a quel punto che le luci si accesero, facendogli esplodere davanti agli occhi un insostenibile lampo bianco. Sentì il portone che si apriva e, attraverso la porta a vetri vide i due padroni di casa rientrare senza preavviso: lei con indosso una pesante pelliccia dall’aria costosissima e gioielli altrettanto preziosi, lui con smoking e cappotto lungo. Insieme a loro c’era Gesso, con la sua umile uniforme da lavoro. Gigino, nel panico più totale, non poté far altro che acquattarsi nell'ombra e assistere alla scena.
“Prego, signore, si accomodi. Stavamo uscendo ma quel che è giusto è giusto. Vado nel mio studio a prendere il blocchetto degli assegni, così salderemo le forniture dell’azienda.”
Per Gigino era veramente troppo. Ora che era tornato a delinquere vedeva comparire davanti a lui l’uomo che gli aveva offerto una seconda possibilità, l’opportunità di redimersi e di condurre una vita onesta. Non poté non interpretarlo come un segno, unitamente alle statue in cui si era imbattuto in giardino. Tutto riconduceva al suo benefattore. Capì, con una chiarezza mai sperimentata prima, che doveva fuggire finché era in tempo, interrompere immediatamente la sua attività illecita e dimenticarsene il prima possibile. Magari si sarebbe potuto trasferire in una città diversa o, chissà, in una nazione diversa. La Svizzera, ad esempio, gli era sempre piaciuta…
Corse alla finestra e tentò di uscire dal varco da cui era entrato. Ma l’agitazione e il ventre ormai preminente non gli consentivano la velocità e l’agilità necessarie. Si voltò e vide il padrone di casa - si sorprese di non averlo neppur sentito avvicinarsi - che gli puntava contro una pistola e toglieva la sicura. Alle sue spalle Gesso, la cui espressione attonita si trasformò in delusione pura quando riconobbe l’uomo in difficoltà cui, mesi prima, aveva teso senza esitazione la mano.
Il ladro mimò al suo indirizzo le parole “mi dispiace”, poi il proprietario di casa sparò. Prima che la pallottola gli perforasse il cranio, Gigino si immaginò immerso nel verde delle montagne svizzere mentre il profumo del pane appena sfornato pervadeva l’aria.
Benedetta Zema